Data: 31/12/2009 - Anno: 15 - Numero: 3 - Pagina: 25 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
I CIPRESSI DI ZANGARSA E ILMARE |
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AUTORE: Oreste Montebello (Altri articoli dell'autore)
Qualche domenica fa con la mia famiglia partecipavo ad una escursione organizzata dall’Università della terza età e del tempo libero di Soverato e sul mezzo che ci portava a conoscere alcune delle perle incastonate nel nostro meraviglioso territorio, seduto accanto a me, un amabile signore con cui avevo già scambiato qualche opinione in un viaggio precedente. Era il prof. Squillacioti, direttore e anima motrice, insieme ad altri, della Rivista “La Radice” di Badolato. Il Professore ed io chiacchieravamo della nostra terra, dei reperti archeologici che affollano le cantine dei nostri musei, delle tradizioni e quando il mio interlocutore si mise a parlare dei cipressi di Badolato, ben cinque, abbattuti da mano ignota, sobbalzai. Sì, fui preso da un attimo di sconforto, il viaggio che stavo facendo era mutato. La mia mente in quell’istante mi portò indietro. Ma di quanti anni? Allora... vediamo. Ne avevo circa quattordici, al massimo sedici. Quindi si ritorna indietro di quasi trenta anni. Che meraviglia la “Memoria”! Ti fa rivivere nel passato e ti fa riappropriare di un pezzo della tua piccolissima storia personale che a volte diventa memoria storica e quindi collettiva. A quel tempo non ero né carne né pesce, come diceva mio padre. Passavo il periodo estivo per lo più andando in giro per le spiagge ma per lo più stavo sott’acqua a pescare. Pescavo con Stefano, compagno di scuola e di scorribande in vespa. Lui ed io conoscevamo tutte le pietre da Pietragrande al casello di Santa Caterina ed oltre, fino a Riace. Solo che eravamo dei pescatori costieri, arrivavamo sul posto in vespa, ci sedevamo sulla spiaggia per osservare il moto ondoso e cercavamo di capire la corrente per scegliere il punto migliore di entrata. Spesso tornavamo a casa con diversi pesci da distribuire alle famiglie e da vendere ai ristoranti per pagarci la miscela da mettere nella vespa e continuare la scoperta di nuovi punti di immersione. Arrivavamo fino ad Isola Capo Rizzuto e Tropea. Partivamo con la muta indosso, io alla guida e Stefano dietro a reggere sulle gambe i ferri del mestiere. Dopo un po’ la società si ruppe. Stefano preferì, alla pesca ed il mare, il ballo e le avventure notturne. Le alzatacce alle quattro del mattino non riuscì più a farle e mi trovai a confrontarmi da solo con il grande Ionio. Al tempo avevo un debole per una ragazza di Catanzaro che andava al mare con le sue amiche al lido Marinella ed io mi ci fiondai senza però perdere di vista il mio primo amore: il Mare! Anzi quelle mie assenze incuriosivano la ragazza e aumentavano le possibilità di strapparle un bacio. Alla Marinella, fra l’altro non c’era solo Gabriella, avevo preso a frequentare la capanna di Gino. Surfista, maestro di karate, grande marinaio e sopratutto pescatore subacqueo. Ci annusammo per un po’ di tempo, come fanno i cani quando incontrano in mezzo alla strada un loro simile e poi avvenne quello che da tempo aspettavo e che mai avevo osato chiedere. Mi chiese di fare da barcaiolo a lui ed ad un altro ragazzo che, in seguito imparai a conoscere e stimare come leale ed altruista. Io dissi: “Non l’ho mai fatto”. E lui: “Sai remare?”. Risposi di sì e mi diede appuntamento per l’indomani mattina alle quattro e mezza sotto casa sua. Mi feci trovare puntualmente, udii una voce chiamarmi... girai l’angolo e mi trovai davanti al forno della mamma di Gino, prendemmo del pane, della pizza e partimmo. Ci imbarcammo su di un Molinari e appena in planata su un mare calmissimo ci ritrovammo all’alba al largo di Badolato. La costa vista dal mare era una visione. Il bianco dei calanchi, gli alberi sfumati di rosso ed il blu intenso dell’acqua annusavano di tranquillità. Eravamo quasi sul punto. Il pilota guardava prima a destra, poi controllava a sinistra. Fermava il motore e ricontrollava verso terra. Un po’ indietro e alla fine bisbigliò: “A parda, ièttala, ièttala!” E un tonfo raggiunse le nostre orecchie. La cima scivolava via. Senza neanche un minimo spostamento della barca la cima scorreva fra le mani dell’altro subacqueo. Poi niente più! Anche lo scivolare della cima in acqua che produceva un sibilo fra le mani di Antonio si era pacata e solo allora Gino mi spiegò dove stavano per immergersi. Erano le prime macchie di scogli sulla “Secca di Santa Caterina” dalla parte di Badolato. Pianificarono l’immersione. Un fondo di trentadue metri: sarebbero stati immersi per circa 30 minuti più la relativa decompressione. Poi rivolgendosi a me disse: “T’a’ ’e tenira supa u terzu àrvaru ’e Badolatu ‘ncignandu ’e munti e sutta ala marina cu a secunda arcata du u ponti ’e Mussolini e u spiculu do casedu rosa”. Poi riprese a dare i numeri dalla parte di Santa Caterina, con altre dettagliate informazioni che mi avrebbero permesso di poter ritrovare il punto iniziale di immersione. Il tempo di prepararsi e i due erano già in acqua. Scivolavano via nel Blu cobalto del mare Jonio. Legai una boa alla cima dell’ancora e iniziai a seguire le loro bolle a remi. Restavo sempre sulla loro verticale, attento a non perdere di vista i loro respiri aiutato da una bonaccia inverosimile. Di tanto in tanto guardavo gli alberi e li vedevo non più allineati con il ponte di Badolato. Stavano andando verso il largo e dopo tornarono sulla cima e lentamente i due subacquei riemersero dopo aver fatto le dovute tappe di decompressione. Il mare e la terra uniti da una linea immaginaria che unisce i verdi cipressi con le profondità del grande blu. Una magia che mi attirava. Un segno di come i primi navigatori tenevano a mente i diversi punti per raggiungere terre da esplorare. Segni della natura e dell’uomo che nel passato hanno reso più semplice la navigazione e la pesca in tutti i mari del mondo. Segni che lo stesso uomo ha cancellato in pochi minuti. In pochi istanti i cipressi del barone Paparo sono finiti a terra, cancellando i miei sogni di giovane marinaio. |